Avvicinarsi alla pittura di Paolo Del Giudice è come immergersi in una città in cui si è sollecitati da liquide sensazioni provocate dalle architetture che costituiscono parte della comune memoria. A rivedere le grandi tele, a volte assemblate a trittico, sembra quasi di ripercorrere la mappa di un territorio che teorizza in sequenza facciate di chiese e di palazzi ad interrompere le vie, ma che determina, secondo i modi di una fedeltà duratura, espressioni nuove, tese a superare il piano stesso della realtà.
Nella sua modernità, del resto, non è il presente che viene interpretato, ma è il passato che ritorna: un mondo frequentato giorno dopo giorno che, nell’autonomia dai padri, si spinge più audacemente nel suo gesto creativo, nell’interpretazione di particolari d’architettura che diventano archeologie.
E’ un frammento, un lacerto, una colonna, una parasta; sono parti d’architettura, interni ed esterni. Eppure sembra un insieme già conosciuto. Del Giudice lo interpreta alla sua maniera e ci aiuta nel ripercorrere la città. Il suo sforzo va anche oltre l’immagine, si muove sul filo di una frammentazione astratta. La sua concretezza si manifesta poi come un risultato pittorico che sa puntare su un confronto immediato con la materia reale, affinché questa possa permettere un’esaltazione razionale delle architetture. Ed è solo così che si può decodificare la lettura di questi frammenti tradotti da un estro naturalistico in una poetica che vuole fornire la sua interpretazione dell’immagine. Così questa compenetrazione dello spirituale fa sì che il capovolgimento dal fuori al dentro e viceversa sia una ricostruzione della memoria.
Dai suoi dipinti si può lucidamente visionare quell’interpretazione, che viene attuata recuperando l’immagine ottenuta grazie a larghe campiture materiche, in una chiave che, almeno in un primo momento, tende alla monocromia e poi a rapportarsi con diverse gamme coloristiche. La lezione tradotta non necessita così di moderate lezioni categoriche, piuttosto richiede un profondo assorbimento in schemi geometrici, anche se sottolineati da ricchezze di timbri e di toni. Si tratta proprio di quel tempo scandito da attimi in cui non si riesce a comprendere più se ciò che stiamo vedendo sia l’espressione della visione o del pensiero costruttivo o se il dato della memoria superi quello della descrizione.
Per Del Giudice il mondo oggettivo si trasforma in un limite percorribile, oltre il quale altrettante certezze diventano visioni storiche quotidiane; continue trasformazioni seguono quella scansione temporale nella quale si riesce a percepire solo la presenza, quasi un dualismo, tra coscienza e memoria.
Non è un rimembrare il suo, non è nemmeno la nostalgia del luogo, è una precisazione dell’immagine sollecitata a far riemergere l’altro da sé, ad evocarlo. E’ altresì la traduzione registrata di architettoniche figurazioni composte a larghe masse, ispirate da una lettura visiva in sintonia con una verità interiore profonda. Ma questo colore che focalizza l’immagine, cosa nasconde?
Una fisicità concreta dell’architettura al di là della quale altra architettura si intravede o si può pensare. In tale sintesi Del Giudice è andato oltre, utilizzando espressioni ed organiche componenti che si concretizzano in altari, statue, particolari sinuosi, volute, piani che, progressivamente, si dissolvono a contatto con la luce.
Sono questi i luoghi e i simboli che promanano, rimeditazioni, spiritualmente guardate come un omaggio, in cui si attua la sintesi dell’organico e del razionale, dello spirito e dell’abbondanza di sensibilità. Anche la luce fa la sua parte, avvolgendo concentricamente l’immagine, senza chiaroscuri, in naturale rapporto col colore. Sono questi gli elementi organizzati con coerenza che rivelano la tendenza dell’artista a frugare nelle zone più “barocche” perché più ricche di autentica esistenza. Ecco allora apparire in prospettiva le conosciute basiliche romane di Sant’Andrea della Valle, di Sant’Agnese in Agone o quelle veneziane, come La Salute. La realtà dell’arte non consente altro che il mistero, incapace di diventare simbolo e metafora. Questa interpretazione rimanda così all’essenza della realtà che l’uomo può ancora scorgere e non penetrare. Proprio come sottolineava Martin Heidegger il tema dell’esistere come una totalità vale per l’uomo come per le sue costruzioni, si può raddoppiare e si illumina in quell’arte che è capace di trasformarsi in una realtà che si costituisce fuori del mondo ed è, appunto, progetto. L’immagine non è muta, ha voci, parla con i suoi simboli che scalfiscono la superficie della nostra sensibilità, sanno immergersi nella nostra coscienza, facendo emergere oscure profondità. Vale sempre quel continuo ritornare sui profili della memoria, scegliendo i frutti di un’apprensione che non rappresenta l’esito di concetti fine a se stessi, ma che possiede radici profonde, immerse nell’indistinto di una vocazione certa e sicura qual è quella di Paolo Del Giudice.