“Un pezzo alla volta incominciando dai dettagli, solo cose accessorie, orpelli, strati calcarei di accumulo nei cassetti delle cose, una dentro all’altra, aprire ancora, più dentro entrare e sapere con le mani che fremono, temono, prima di scoperchiare, dissigillare, sapere che farà male, che l’ologramma di qualcosa, un tempo, un’ora, un odore conservato, chi, un luogo, qualcosa farà male, per quella dolente riprova di rivedersi innocenti, prima dello sfregio o forse solo prima di perdere quel filo sottile che esce dal cuore, quel gomitolo in dotazione, gomitolo di attesa di gioia, di luce. Quel filo che ci tiene legati alla promessa. “
Riporto queste righe che aprono una breve sezione inedita di un mio libro che verrà, che è già compiuto ma non ancora licenziato. Quella sezione si intitola ‘Cose abitate’ e quando il mio caro amico Paolo del Giudice mi coinvolse nella ricerca di un titolo per questa sua esposizione del 2023, era a quello che pensavo. Poi l’illuminazione lo colse in fretta: ‘Genius loci’. Perfetto così, e il mio ‘Cose abitate’ resta per me.
Genius loci va bene. Afferisce a un ambito più vasto, certamente meno quotidiano: quello spirito che aleggia in un luogo – artificiale o naturale che sia – dal quale origina una unità misteriosa, una sorta di autorialità immateriale, generatrice e normatrice.
E il pittore in tutta la sua lunga storia, davvero è colto da una possessione che lo costringe quasi a sviscerare un tempo, entrando fisicamente e psicologicamente nel luogo che lo chiama. Restano a noi quelle visioni, selezionate, ma frutto di decine di bozzetti, veloci, spesso monocromi su piccole tavole rettangolari, su cartoni. Le sue pennellate franche di esitazione, come se quel genius gli movesse la mano fino a esaurire – ma ancora dopo decenni ritorna sui luoghi – tutta la carica emotiva del sito.
Gli anni magnifici e definitivi per l’evoluzione della sua arte, a metà degli Ottanta del secolo scorso, sono quelli della scoperta delle fabbriche abbandonate, le officine derelitte, i depositi vuoti e dimenticati. La pittura di Del Giudice si arma, contro l’abbandono, riscoprendo in esso i valori del lavoro, della fatica, dell’archivio di gesti e memorie. La ‘Buca’ di un’officina diventa allora un totem, una specie di gola dove resistono tutte le parole della vita di chi in quel luogo ha speso le ore. Il rispetto per l’uomo si fa luogo residuale, non metafora ma spazio reale, tempio/recinto sacro di esistenze. Tutto il colore della tavolozza si riversa furibondo nella giostra degli oggetti abbandonati, per rarefarsi invece presto in quei veri e propri racconti, asciutti di gesto pittorico e di colore, dei lavabi o rubinetti, dove ci è facile vedere le mani fantasma di chi li utilizzava dopo la giornata di lavoro.
Ma di questa mostra c’è qualcosa che mi sta ancora più nel cuore.
Torniamo al titolo. Il mio. Mai suggerito, peraltro, ma in pectore vivo e pertinente: ‘Cose abitate’ resta in stretta relazione, per me essenziale e squisita, con l’anima semplice e segreta delle cose, delle case, che portano su di sé la stratificazione di gesti e sguardi, amori e morti, che le hanno viste testimoni immutabili, che le hanno sfiorate.
Di questo parlavo nel brano su riportato, e di questo, credo, dicono le opere di Del Giudice radunate, alcune per la prima volta, nella retrospettiva nell’ex opificio di Villa dei Cedri.
Stanze attraversate più dalla memoria che da un vero e proprio atto volontario del guardare; percorsi mnestici più che visivi, composti da echi di parole, correnti d’aria del cuore, tenerezze insospettate, rigurgiti di paure.
Dagli angoli più oscuri emergono allora presenze corporee, di materia e colore, che si depurano della gravità, perdono ogni traccia di ingombro fisico, per diventare protagoniste – e non più testimoni – di una vita andata che forse non è nemmeno più ricordo attivo – cioè richiamabile alla memoria – ma parte inscindibile della scena esistenziale, elemento strutturale di avvenimenti o di quotidianità.
A quella parte delle opere di Del Giudice che raccontano della casa, la sua familiare di nascita e quella della casa-studio di Piazza San Vito, a quegli interni di piccola intimità, a volte gozzaniana a volte minimalista, guardo con particolare attenzione, per scoprire un aspetto meno ‘sociale’ del lavoro di Del Giudice, meno impegnato nello scavo della memoria collettiva, fatta di fabbriche dismesse, edifici abbandonati, luoghi urbani residuali. E forse meno ‘colto’ come negli svettanti interni gotici (siamo alla fase precedente all’innamoramento per il Barocco) o nelle borgesiane infilate di biblioteche, vertiginose e vagamente inquietanti.
Qui invece, e questo mi coinvolge molto, è come scoprire una strana e originalissima autobiografia, anzi, dato che parliamo di pittura, autoritratto.
E’ così che mi piace pensare, mentre osservo la poltroncina rosa, sola e consapevole protagonista di una deliziosa operina del 1992; adorabile ritratto di famiglia (io ci vedo una mia zia un po’ larga di fianchi, identica e, forse, il mio ritratto tra pochi anni), dipinto con il colore della intenerita confidenza di un giovane nipote, rispettoso e divertito.
Così il cugino magro e silenzioso, sempre presente alle riunioni di famiglia eppure sempre assente così appartato, dall’aspetto vagamente malaticcio, è quel termosifone in ghisa d’angolo accanto a una porta socchiusa.
E la pianta – una dracena, verosimilmente – a guardia di un cantone nel corridoio d’ingresso che si apre su una specchiera, non è forse la eterna domestica fedele, pronta al richiamo appena dietro la parete?
In questa galleria di ritratti, dove le poltrone, le sedie (imbottite e tronfiette o di plastica e metallo, ardite e rivoluzionarie), i letti sono protagonisti muti e sornioni mi sembra di entrare nella vita di chi non ho conosciuto eppure mi è noto attraverso gli oggetti che rappresentavano la sua quotidianità.
E’ una casa borghese l’una, l’altra di artista forse squattrinato e comunque disinteressato all’aspetto consumistico, e stanno l’una e l’altra davanti a noi con la tenerezza rigorosa dell’arte di Del Giudice, per dirci cose che ci riguardano, che ci ricordano quello che è stato, il buono, forse non bello ma vero, di un tempo irripetibile.
La storia di una casa che rivive grazie alla memoria, che non teme ruspe o demolizioni e rifacimenti, esiste una volta per tutte dentro le pennellate forti e sicure, di chi l’ha amata una volta e per sempre.