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DAL CATALOGO “INSEGUIRE VENEZIA” 2017
Quante volte è stata pronosticata, sulla scia del racconto di Thomas Mann, anche la morte di Venezia? Non mancano, è vero, i segnali di deterioramento, anzi si accrescono i motivi di preoccupazione, di ansia e di allarme per le sorti della città “anadiomene”. Ma quando la paura per Venezia si è trasformata in paura di Venezia?
Alla crisi della città d’acqua, per paradossale contrappasso, corrisponde un incremento esponenziale della vita autonoma della sua “immagine”; un’immagine che si è trasformata in un circuito chiuso, in un loop, e come tale si è sottratta al trattamento dei pittori e dei fotografi per consegnarsi sempre più allo scorrere di fotogrammi elettronici effimeri e di ricordi altrettanto generici. Forse, però, tutti noi siamo stati un po’ affrettati e superficiali nel considerare chiusa la vicenda “pittorica” della venezianità, arrestandola storicamente alla conclusione della pittura lagunare della prima metà del secolo passato. E’ singolare che un pittore come Gino Rossi, giustamente molto apprezzato da Del Giudice, sia stato tra i più consapevoli della necessità di abbandonare, agli inizi del 900, un ambito come quello della “veduta”, giudicata esaurita e addirittura pericolosa, anacronistica. Ma da Gino Rossi ci separa un tempo (non quello cronologico, quello “logico”) lunghissimo, un’epoca; e anche se da un pittore come lui nessun tempo ci separerà mai del tutto, pure “Venezia” costituisce oggettivamente un problema per gli artisti, perché essa rimarrà sempre un luogo e un’idea: una necessità spirituale. E proprio per questa sua ineluttabilità e per il suo carattere ultrauniversale, direi cosmico, Venezia è e sarà un pensiero costante dell’umanità (poniamo che gli uomini dovessero abbandonare la Terra per altre destinazioni; è naturale che l’ultimo addio, l’ultimo gruppo di “terrestri” partirebbe da Venezia, che sarebbe vista dall’alto scomparire come la si vede in uno degli ultimi dipinti di Del Giudice).
Paolo Del Giudice, pur consapevole del destino storicamente inevitabile della “rinuncia”, rompe un tabù con una mostra come questa in cui egli documenta, insieme, il suo amore per Venezia e per la Pittura, dichiarando apertamente che solo attraverso il filtro della storia dell’arte si può davvero guardare un manufatto originale come la città lagunare: un viaggio dunque che ci presenta, in un ordine cronologico rovesciato (dalle opere attuali fino alle prove giovanili), l’itinerario di un artista che ritorna neofita per vivere, come la prima volta, l’intensità dell’esperienza estetica alla stregua di un’apparizione, ben conscio che questa verginità gli fu possibile, forse e solo, agli inizi acerbi della sua pittura, ma anche che ad essa il lavoro ha aggiunto esperienze, ha accumulato intenzioni e soluzioni ulteriori. Così che l’aggancio con gli inizi gli consente di portare al diapason una tensione pluridecennale (alcuni dipinti recenti sono la migliore prova del rapporto dare-avere tra purezza degli esordi e pienezza della maturità). Dunque: nessuna paura di Venezia, e nessuna paura della pittura!
Non sarà stato un caso se il più dotato pittore veneziano della seconda metà del ‘900, Giuseppe Santomaso dopo la stagione dell’informale e del “minimal”, ritrovasse la sua Venezia, per frammenti, per ritagli memoriali da “salvare”; non sarà stato un caso se in quegli anni – i ’70 e gli ’80 – un giovane pittore (talmente “pittore” da realizzare sempre, in pittura, anche gli studi preparatori dei suoi quadri) come Paolo Del Giudice ripartisse da Venezia (anche), sfidando impliciti e ed espliciti divieti, e si muovesse, anticipando il clima del ritorno generale alla pittura degli anni ’80.
Certo, Paolo non è stato allievo di Santomaso all’Accademia di Venezia, ma dapprima dello scultore Alberto Viani (per sperimentare anche la terza dimensione) e poi di Edmondo Bacci, il pittore spazialista più di tutti attratto, assieme a Gino Morandis, dalla magia del colore. Ma nel clima veneziano di allora, con lo spazialismo pervenuto alle estreme sue possibilità, e con le “Venezie” esplose di Santomaso, a un giovane trevigiano vagante per le “stanze” di Venezia viene voglia di “verificare” il potenziale pittorico in una dimensione più vasta, come se fosse passata la “paura” di Venezia ( e con essa la “paura della pittura”) e si potesse di nuovo guardare e pensare l’insieme della “città-fatta-a-mano”, inscindibile dalla Venezia “anadiomene” sbocciata dall’acqua marina.
Vedo insomma nella Venezia-in-azione di Paolo Del Giudice un insieme di motivazioni e di speranze che altri non hanno o non hanno attestato con la convinzione che egli ha mostrato di possedere. Se così non fosse non avremmo dipinti come quelli dedicati alla Venezia a volo d’uccello, evidenti omaggi alla poetica espressionista di un Kokoschka e ad alcuni suoi dipinti famosi, come Punta della Dogana, esposta alla Biennale del 1948 e per lungo tempo visibile nella collezione della Trattoria La Colomba dei Deana; né potremmo goderci certi squarci visionari, alla Turner, o espliciti richiami al vedutismo storico e alla impostazione degli impressionisti, e perfino di un Boldini.
Questa volta però non si tratta di imitazioni mascherate o episodiche citazioni, si tratta invece di vere e proprie, consapevoli e programmatiche immersioni nella storia della pittura europea, in un arco cronologico che insiste sull’intera attività (una vita) del nostro trevigiano. Attraverso questa galassia l’artista-pittore si muove all’indietro e in avanti: e allora assistiamo a episodi estremi come quando la stesura per grandi e violente pennellate si esprime quale cancellazione dell’immagine prevista per manifestarsi come gesto che mentre cancella-rinnova, mentre distrugge-esalta, mentre demolisce-costruisce.
Vedo dunque da un lato (perché no?) lo storico dell’arte che alberga nell’animo di Paolo, la sua passione per la Grande Tradizione; e, del resto, non fu forse un pittore, Giorgio Vasari, il padre della Storia dell’arte italiana? (Direi che ogni pittore ha la sua storia – e la sua Storia dell’Arte). Dall’altro osservo il suo procedere come pittore figurativo, consapevole che ciò che vediamo e ciò che vogliamo è già stato visto ed è già stato voluto da altri, e sarà visto e sarà voluto in futuro da altri ancora. Questa coscienza è storia, questa storia è coscienza.
Nel caso di Del Giudice l’intreccio è così profondo e fecondo che le due cose non si possono scindere. Egli è due volte artista. Per la vocazione giovanile che lo iscrive tra i pittori-nati, per la passione con cui ha rinsaldato le sue prime illuminazioni.
Who’s afraid of Venice? Nico Stringa
How often, in the wake of Thomas Mann’s novel, has the death of Venice been proclaimed? It is true that the signs of deterioration are plenty, and in fact reasons to worry, for anxiety and alarm continue to grow for the “anodyomene” city. But when did fear for Venice become fear of Venice?
To the crisis of the water city, there corresponds, by some paradoxical retaliation, an exponential increase in the autonomous life of its “image”. An image that has become a closed circuit, a loop, and as such has been subjected to painters and photographers who consign us increasingly to scrolling though ephemeral electronic photos and equally generic memories. Perhaps, though, we have been somewhat hasty and shallow in thinking that the pictorial affair with Venice had drawn to close, ending as it did, historically speaking, in the first half of the last century. It is odd, that a painter such as Gino Rossi, rightly much appreciated by Del Giudice, should be among the most conscious of the need to abandon, at the beginning of the 1900s, a field such as the “veduta”, judged as it was to be spent and anachronistic. But from Gino Rossi, a long time (not chronological, but logical) has passed. An Epoch. And even though, from an artist such as he, no amount of time can truly separate us, “Venice” still poses, objectively, a problem for artists, because it will always be an idea, a spiritual necessity. And precisely for its ineluctability and for its ultra-universal, I would say cosmic, character, Venice is and always will be a constant thought of mankind – suppose that humankind abandoned Earth for another destination: it is only natural for the last farewell, for the last ‘earthlings’ to leave Venice, which would be seen disappearing from space, just as in one of Del Giudice’s last paintings.
Paolo Del Giudice, while aware of the historically inevitable destiny of the “abandonment”, breaks a taboo with this exhibition in which he documents both his love for Venice and his love for painting. It is an open declaration that it is possible to look at a handmade original such as the city of the lagoon if helped by the lens of the history of art. A journey that presents us, in reverse chronological order (from his current works to his youthful attempts), the itinerary of an artist who becomes a novice once again so as to savour, as if for the first time, the intensity of the aesthetic experience as an apparition, well aware that this virginity was possible, perhaps only in the early, immature years of his paintings, but also to which work has added experience, accumulated intention and further solutions. The link between the start allows him to bring a multi-decade tension to the diapason (some of the recent paintings are the greatest proof of the give and take relationship between the purity of a debut and the fullness of maturity). So, no fear of Venice, and no fear of painting!
It was no coincidence that the most gifted Venetian painter of the second half of the 1900s, Giuseppe Santomaso, after his minimal and informal season, re-discovered his Venice, in fragments and cropped memories to ‘save’; it was no coincidence if in the ‘70s and ‘80s a young painter (so very much a painter that that even his studies were done in paint), Paolo Del Giudice should set off again from Venice, challenging both implicit and explicit prohibitions, anticipating the climate of a general return to painting in the ‘80s.
In fact, Paolo was not the pupil of Santomaso at the Venice Academy, but of Alberto Viani the sculptor (to experiment with the third dimension) and then of Edmondo Bacci, the Spatialist painter who more than any was attracted to the magic of colour. But in the Venetian climate of the time, with Spatialism taken to its extreme and with the exploded “Venices” of Santomaso, a young man from Treviso, wandering around the ‘rooms’ of Venice, would inevitably want to ‘verify’ his artistic potential on a larger scale, as if that ‘fear’ of Venice had passed (and with it the ‘fear of painting’) and be able to look at and think of the ‘handmade city’, inseparable from the ‘anadyomene’ Venice, that burgeoned from the seawater.
I can see then, in the Venice-in-action of Paolo Del Giudice, a set of motivations and hopes that the others do not have or have not attested to with the same conviction that he possesses. Were it not so we would not have paintings like the bird’s eye view of Venice, a manifest homage to the Expressionist poems of Kokoschka and to some of his famous paintings, Punta della Dogana for one, shown at the 1948 Biennale, and for a long time on display in the collection at Trattoria La Colomba dei Deana. Nor could we enjoy certain visionary, Turner-like rips, or explicit revocations of the historic vedutisti and the set-up of the Impressionists, or even of a Boldini.
These are not disguised imitations or occasional references, but consciously planned immersions into the history of European painting, through a span of time that insists on the entire activity (a life) of our province of Treviso. Through this galaxy, the artist-painter moves backward and forward: and here we witness extreme episodes like when with great, violent brushstrokes some expected memory is erased only to manifest itself as a gesture that while erasing renews, while destroying thrills, while demolishing builds.
I can see then, from one side (why not?) the art historian that resides in Paolo’s soul, his passion for the Great Tradition. And besides, was Giorgio Vasari, the father of Italian history of art, not a painter? (Every artist has his story – and his history of art.) On the other side, I observe how he proceeds as a figurative painter, conscious that what we see and what we want has already been seen and has already been wanted by others, and will be seen and will be wanted by still others in the future. This consciousness is history, this history is consciousness.
In Paolo Del Giudice’s case, this intertwining is so deep and fruitful that the two cannot be separated. He is twofold an artist. For the vocation of his youth which casts him among born artists. For the passion with which he has cemented his early illuminations.
Nico Stringa