Engish version
DAL CATALOGO “INSEGUIRE VENEZIA” 2017
È una Venezia inusuale, insolita, che poco o quasi nulla concede al pittoresco, quella di Paolo Del Giudice. Nei suoi dipinti ci invita a una visita e a una visione attente e sensibili ai diversi angoli e aspetti della città, indugiando su chiese, case e palazzi, su rii, canali e ponti, su finestre e portoni magari semiaperti con uno sguardo assolutamente nuovo, come se fosse la prima volta, anche se la sua opera ci testimonia di un lungo rapporto con la città d’acqua e di pietra, fatto di “tentativi di immersione” come egli stesso conferma. Non è solo un rapporto con l’esterno della città. Quando e ove possibile l’artista penetra all’interno delle calli, dei campi, dei palazzi e soprattutto delle chiese, calandosi appieno nella storia, nell’architettura, nell’arte e persino nella sacralità dei diversi luoghi.
Venuto dalla terraferma trevigiana, egli ha seguito un lungo itinerario di avvicinamento – di cui i suoi quadri danno pienamente conto – verso questa Venere dell’Adriatico, come l’hanno definita alcuni, sorta dalle acque che la circonfondono, ammaliatrice anche e nonostante le rughe che le vicissitudini, il tempo, l’umidità e la salsedine le hanno impresso. E’ lui stesso a confessare la difficoltà di accostarsi, “di confrontarsi col più incredibile nucleo del passato, pervenutoci quasi integro, che esiste e resiste come pietra di paragone, punto di contraddizione col presente”. Da pittore sensibile e colto qual è, Del Giudice è ben consapevole del rischio e dell’impegno che comporta il misurarsi con un soggetto tanto conosciuto, infinite volte rappresentato da tutti gli artisti che a Venezia sono cresciuti o vi si sono recati. Per citarne solo alcuni: Canaletto, Guardi, Bellotto, Turner, Ruskin, Renoir, Monet, Kokoschka… ll rapporto con questi fari della storia dell’arte, e con altri, come i pittori veneti dal Cinquecento al Novecento, appare sempre presente nei quadri dell’artista trevigiano, a volte più palese, altre volte molto ben filtrato e riconoscibile solo indirettamente ad una lettura più approfondita.
Attratto dalle memorie che la città comunica, dalla stratificazione e dai segni che il tempo vi ha lasciato, dalla storia e dalle vite scivolate via lungo quei percorsi di terra e d’acqua, dalle opere di quelle genti che ne hanno fatto qualcosa di unico e indicibile, l’artista riesce poi ad abbracciarla con uno sguardo d’insieme dall’alto, quasi a volo d’uccello, in quadri di notevoli dimensioni – in armonia con i teleri della Scuola veneta – per consegnarci una Venezia che l’immaginazione, il ricordo trasformano, rielaborano, reinterpretano fino a farne qualcosa di intimo e personale. Del Giudice sa carpire infatti da ciò che vede, e dalle ricerche di tanti nomi illustri o meno che l’hanno preceduto, impressioni e riflessioni; da fotografo dotato quale pure è riesce a distillare dagli spazi e dagli scorci che seleziona con gli occhi e la mente, prima che con l’obiettivo, l’essenza di ciò che ha davanti, come se si trattasse di individui, di volti scavati sino ad afferrarne l’anima. E non a caso l’artista è anche un ritrattista d’eccezione, come è dato cogliere in tanti suoi dipinti dedicati a uomini e donne più o meno celebri. Così dalle sue vedute d’insieme, come anche dalle inquadrature dedicate ai vari angoli della città, si delinea pian piano un ritratto ‘personalizzato’, quasi segreto di Venezia.
Vissuto in gran parte a Treviso e ai piedi della collina del Montello, Del Giudice sembra coltivare un rapporto di ospite rispettoso nei confronti dell’acqua che circonda e in cui è immersa la città lagunare, un’acqua che è assai diversa nelle barene, nelle bocche di porto o nel bacino di S. Marco, che è specchio talvolta immobile, altre volte franto dal moto ondoso provocato dal vento o dal traffico acqueo, che persino nei canali e nei rii è cangiante, ora putrida, nel cosiddetto “morto d’acqua”, ora quasi zampillante quando la sospinge la marea, a momenti lattiginosa, quasi pece o petrolio la notte, mai uguale nemmeno nei colori, qui azzurra, là verde bottiglia, grigio-verde nei giorni di pioggia o di nebbia, fino ad esplodere allo stesso modo e più intensamente del cielo nei tramonti infiammati di arancio, d’ocra, di rosso cupo e violaceo… Forse nemmeno gli abilissimi maestri vetrai di Murano ne hanno afferrato nel tempo tutte o quasi le sfumature. Eppure il pittore accetta di confrontarsi con essa non tanto rappresentandola e rischiando così di banalizzarla, ma assumendola come sostanza stessa di molti suoi quadri, nei verdi, negli azzurri liquidi di dipinti in cui l’olio è smagrito fino quasi all’acquerello che, per l’appunto, è costituito d’acqua, nei rosati di alcuni riflessi, nei monocromi di alcune pareti dilavate non solo dal tempo, nel blu intenso di una giornata luminosa in Bacino.
Il rapporto del pittore con Venezia è frutto dunque, come si è detto sopra, di un lungo percorso di avvicinamento, di conoscenza, durato oltre quarant’anni, di cui sono riprova alcuni lavori degli anni ‘70, nei quali lo smalto è una pellicola lucente che riveste ampie campiture di colori caldi e che attestano la precoce assimilazione, da parte di Del Giudice, delle ricerche artistiche contemporanee. Dapprima è la città monumentale, soprattutto barocca, che lo colpisce con le sue chiese e i suoi palazzi, ma anche qualche squarcio più comune, un portone, una finestra. Poi sempre più entrano in gioco l’acqua, la luce, l’aria, fino all’immersione del Molino Stucky nell’acqua fonda del Canale della Giudecca. Del Giudice infatti riesce a far dialogare stupendamente, proprio e soprattutto tramite la dimensione acquatica che quasi sembra inghiottirli, il ‘Gotico’ novecentesco con il Gotico dei palazzi sul Canal Grande, quel Gotico del Nord che già Ruskin aveva visto interagire in modo unico nell’ambiente lagunare con il Bizantino e con i poco amati Rinascimento e Barocco italiani. Al culmine di questo percorso, come in una sorta di climax pittorico, non potevano mancare S. Marco, la basilica, la piazza, il bacino, la città intera avvolta in una dimensione acquorea che conosce infinite sfumature di un colore che si fa musicalmente sinfonico.
Forse nessuno prima e come lui ha saputo interpretare in modi così originali l’alchimia intima e recondita dell’interno della basilica marciana con una pittura fatta di gestualità straordinaria e insieme di riflessione. Egli riesce infatti a catturare e a rifondere insieme nelle sue pennellate la luce dell’illuminazione naturale e di quella artificiale, l’oro dello sfondo, i colori variegati delle figure dei mosaici e dei marmi, persino l’atmosfera che inonda le volte e le cupole, il tutto captato attraverso la griglia, il diaframma dell’iconostasi che sembra tenere insieme la fuga delle strisce cromatiche.
Ancora colpiscono lo sguardo e accendono l’immaginazione gli angeli delle varie chiese barocche che l’artista rivisita; dai Gesuiti agli Scalzi, dalla Salute a S. Maria del Giglio, le statue sembrano staccarsi dal blocco marmoreo e spiccare il volo, librandosi immemori nell’aria quasi nuotassero libere e felici. Così anche i marmi, le pietre, gli intonaci di chiese e palazzi, pur mantenendo sovente una matericità tosco- romana paiono liquefarsi. Il pittore afferra con acume sottile la cifra più suggestiva del Barocco stesso, quel dinamismo aereo, quel gioco capace di rendere l’universo di continuo reversibile, con l’aria che si fa liquida, l’acqua che quasi si vaporizza, diventa cielo, le chiese e i palazzi sfarzosi che si alleggeriscono, si dissolvono e si ricompongono nello specchio mobile dell’acqua e nella luce dissolvente dell’aria. Nelle sue tele, infatti, Del Giudice ha distillato la linfa dell’arte veneta rinascimentale, secentesca, settecentesca e ottocentesca, ma pure di molta modernità. Se il ritorno a più riprese della veduta con il Canal Grande e il Ponte di Rialto non può non richiamare i vedutisti veneziani, la facciata di S. Moisé ha certamente presenti i quadri di Filippo De Pisis e di Emilio Vedova dedicati al medesimo soggetto, mentre la mossa e colorata, quasi espressionistica veduta dall’alto con il Canal Grande, la Salute, la Piazza e il Bacino suggerisce una rilettura originale di Oscar Kokoschka.
Come il motivo insistito su Rialto, anche le chiese di Del Giudice – siano S. Marco, la Salute, gli Scalzi – testimoniano in certo modo di una autentica passione, quasi un’ossessione, una sfida a misurarsi con quei soggetti che costituiscono di fatto per il pittore trevigiano le sue Cattedrali di Rouen. Sono forme-archetipi di un’architettura dalle declinazioni rotonde rivissuta dentro di sé, come quelle materne del prediletto Barocco, del Romanico-bizantino di S. Marco o del pur amato Tardo Gotico della facciata dei Frari dal linearismo morbido, come pure del Rinascimento di S. Giovanni Crisostomo e del Neoclassicismo di S. Simeone Piccolo. In esse la materia pittorica a volte si addensa fin quasi a raggrumarsi, altre volte risulta quasi diafana, fino a scomparire e a lasciar posto alla tela, ma sulla quale resta comunque leggibile il trattamento pittorico preliminare.
Fra tanti edifici fa la sua fugace comparsa anche una gondola vuota – si direbbe alla deriva – circondata dall’acqua o davanti a un Palazzo Ducale appena intravisto, come il Campanile e la Libreria. E certo ritorna alla mente il tema letterario sfruttato da Lord Byron fino a Thomas Mann e a Ezra Pound, per arrivare alla prosaicità dei nostri giorni, quello della “morte a Venezia”, per le connotazioni funeree della gondola-bara. Al di là della giostra turistica (nell’ironia amara forse sottesa al dipinto), potrebbe rappresentare anche l’evocazione di un traghetto verso altri lidi. Ma per l’artista essa assume senza dubbio soprattutto una valenza di “relitto” del passato, al pari delle vecchie petroliere o navi da carico che un tempo sostavano alla Stazione Marittima e oggi a Marghera. A ricordarci che anche quelle, come Piazzale Roma e i suoi garage sono Venezia, fanno parte di una storia più recente e ancor più carica forse di contraddizioni, di un passato industriale che come i monumenti d’Italia, le biblioteche storiche, le fabbriche-cattedrali di tanti altri suoi quadri raccontano del lavoro, dei pensieri, della passione, della fatica di tante esistenze che hanno contribuito a costruire il nostro presente.
Paolo Del Giudice: Venice Inside/Insight – Pierpaolo Luderin
With very little to do with the picturesque, the Venice of Paolo Del Giudice is rather unusual and strange.
Through his paintings, Del Giudice invites us on a searching tour of the various corners and aspects of the city, pausing at churches, houses and palaces, on the rio, canals and bridges, and at windows and half-open doors. There is a fresh, for the first-time feel to his work, despite a long relationship with the city of water and stone, to which his many “attempts at immersion” attest. It isn’t simply a relationship with the exterior of the city. Wherever he can, the artist delves into the interior of allies, squares, buildings and most of all churches, completely immersing us in the history, architecture, art and even the sacredness of these different places.
Coming from mainland Treviso, he took a long time to come near (as his paintings show) to this Venus of the Adriatic, as some have defined it, risen from the waters that surround it, enchantress despite the time, vicissitudes, the damp and the brackish air that wrinkle her. He himself admits to the difficulty of drawing near, “of being confronted with the most incredible core of the past, that reaches us almost whole, that exists and resists as a touchstone, a point of contention with the present”. As the cultured, sensitive artist that he is, Del Giudice is fully aware of the risk and commitment of measuring himself against such a well-known subject, as well as the infinite depictions by artists who either grew up in or came to Venice. Painters such as Canaletto, Guardi, Bellotto, Turner, Ruskin, Renoir, Monet and Kokoschka to name a few. The relationship with these beacons of art history, and with others like the Venetian painters of the 16th to the 19th centuries, is ever present in the pictures of the Treviso artist, and is at times more obvious, while at others, well filtered and only indirectly recognisable from a deeper viewing.
Attracted to the memory the city communicates, to the layering and the signs that time has left, to the stories and the lives that slipped away along those paths of water and land, to the people who turned their work into something ineffably unique, the artist manages to embrace it all with a near bird’s eye view from above, in paintings of notable size (in harmony with the painters from the Venetian school) to deliver us a Venice that imagination and memory re-elaborate, re-interpret until they make it something personal and intimate. Del Giudice is adept at extracting impressions and reflections both from what he sees and from the research he carried out into his illustrious predecessors. As the gifted photographer that he is, he manages to distil from the spaces and perspectives he selects with his mind’s eye, well before using the lens, the essence of what he has before him, as if he were dealing with people and faces, so sunken as to bare their souls. Small wonder then that the artist is also an exceptional portraitist, as can be seen in his many paintings of famous men and women. And so, bit by bit, through his overall views, and the framings dedicated to the various corners of the city, a ‘personalised’, almost secret view of Venice begins to emerge.
Having lived for many years in Treviso and at the foot of Montello, Del Giudice seems to have cultivated an almost deferent, guest-like relationship with the water that surrounds the lagoonal city, and in which it is immersed. The water differs everywhere – in the shallows, in the port entrances, in the basin of San Marco, sometimes a flat mirror, at others shattered by the waves whipped up by the wind or the movement of watercraft, that even in the canals and rio can be iridescent, or putrid, during the so-called “morto d’acqua”, or almost spouting when driven by the tide. It is sometimes milky, sometimes almost pitch or oil at night, and never the same colour: here blue, there bottle green, grey-green on rainy days or when there is fog, and, just like a flaming sunset sky yet more intense, an explosion of orange, ochre, dark red and violet. Perhaps not even the master glass-blowers of Murano have grasped all those different shades. And yet the painter accepts the challenge, not so much of depicting it and so risk trivializing it, but of employing it as the very substance of many of his paintings; in greens, in the liquid blues of paintings where the oil is so thinned out as to resemble a watercolour; in certain rosy tints, in the monochrome of certain walls, washed out but not only by time. In the intense blue of a bright day in the basin.
The relationship the painter has with Venice is, as mentioned above, the fruit of a forty-year long approach, and of knowledge. Some works from the ‘70s are proof. The paint is a glossy film that covers ample fields of warm colours, attesting to Del Giudice’s assimilation of his research into contemporary art. At first, the monumental city, above all Baroque, so striking with its churches and palaces, but also some more common nooks: a door, a window. Then, more and more, water, light and air come into play, all the way up to the immersion of Mulino Stucky in the deep water of the Canale della Giudecca. Indeed, Del Giudice, above all through this aquatic dimension, manages superbly to create a dialogue between the 20th century ‘Gothic’ and the Gothic of the palaces of the Grand Canal, that Gothic from the north that Ruskin had already seen interact uniquely with the Byzantine and the little loved Italian Renaissance and Baroque. And at the end of this path, in some sort of artistic climax, St Mark’s, the Basilica, the Square, the Basin, the entire city wrapped in a watery dimension of infinite shades of a colour that becomes musically symphonic.
Perhaps nobody beforehand has like him known how to interpret with such originality the intimate and recondite alchemy of the interior of the basilica with such extraordinary gesture and colour. He succeeds, with his brushstrokes, in capturing and fusing together the natural light to the light from artificial sources – the background gold, the variegated colour of the mosaic figures and the marble, even the atmosphere that floods the vaults and domes, and capping it all, the gratings, the diaphragm of the iconostasis which seems to reign in the flight of chromatic ribbons.
What is also striking, both to the eyes and imagination, are the angels on the various Baroque churches the artist depicts. From the Gesuiti to the Scalzi, and the Salute to S. Maria del Giglio, the statues, oblivious to the marble blocks beneath, seem to spread their wings and swim off into the air freely and happily. So too, the marbles, the stones, the plaster of the churches and palaces seem to melt and liquefy. The artist grasps with subtle acumen the most evocative figure of Baroque itself, namely that aerial dynamism, that play which turns the universe inside out, with the air that becomes liquid, water that almost vaporises, becoming sky, the over-elaborate churches and buildings becoming lighter, dissolving and reforming in the mirrors of moving water and dissolvent air. In his canvases, Del Giudice has distilled the essence of Venetian art from the Renaissance to the 19th century, and of much modernity, too. Evoking the Venetian vedutisti with his many views of the Grand Canal and Rialto Bridge, the façade of S. Moisé clearly calls to mind the works of Filippo De Pisis and Emilio Vedova, who painted the same subject. While the near Expressionist view, full of movement and colour, from above the Grand Canal, la Salute, the Square and the Basin hints at an original re-reading of Oscar Kokoschka’s venetian paintings.
As with his insistence on Rialto, Del Giudice’s churches, be they St Mark’s, the Salute, the Scalzi, also testify in some way to a genuine passion, almost an obsession, for meeting the challenge of those subjects which, for the Treviso painter, amount to his Rouen Cathedral. They are archetypal forms of an architecture of a rounded declination relived within himself: the maternal one of his favoured Baroque; the Romanic-Byzantine of St. Mark’s, or the gentle linearity of the Gothic façade of the much-loved Frari; no less the Renaissance of S. Giovanni Crisostomo and the Neoclassicism of S. Simeone Piccolo. At times, the paint is so thick it almost congeals, at others it is virtually diaphanous, up to the point of disappearing altogether, exposing the canvas, but on which, nevertheless, the preliminary pictorial treatment remains legible.
Among the many buildings, an empty gondola (perhaps adrift) makes its fleeting appearance, surrounded by water or in front of a half-glimpsed Doge’s Palace, or the bell tower and Libreria. And what surely comes to mind, given the funerial connotation of a coffin-like gondola, is that literary theme used by Byron, Thomas Mann, and Ezra Pound, to arrive at our more prosaic times, of “death in Venice”. Aside from representing a ride, a tourist attraction (a bitter irony that the painting may imply), the gondola might also be an evocation of a boat to other shores. But for the artist it undoubtedly takes on the importance of a “wreck” from the past, in equal measure to the oil tankers and cargo ships that once docked at the maritime station and now at Marghera. To remind us that even they, and likewise Piazzale Roma and its garages, are Venice, that they are part of a more recent history, charged with the contradictions of an industrial past, that, the monuments of Italy too, the historic libraries, the cathedral factories of many of his paintings, recount the work, the thoughts, the passion and the strife of the many lives that built our present.
Pierpaolo Luderin