L’equivoco secondo cui l’action painting sia necessariamente da collegare all’arte non-figurativa, se non addirittura a un impianto anti-figurativo, trova nel “pitturare” di Del Giudice una interessante smentita; il che contribuisce a raccordare il suo “lavoro” alla grande fonte dell’espressionismo europeo che da più di un secolo alimenta tanta pittura vitale e anticonvenzionale in un procedimento che fissa l’antidoto all’aleatorio e all’imprevisto.
Paolo, da sempre, combatte una silenziosa battaglia contro la precarietà dell’immagine, il cui statuto, di per sé, non solo come conseguenza del diffondersi dei nuovi media, è in continuo sospetto di scomparsa (osservando i suoi lavori si potrebbe definire la produzione d’immagine il risultato di quel lavoro specifico della facoltà umana consistente nel configurare situazioni visive che valgano a scongiurare, in anticipo, la loro inesistenza). La sua, di Paolo, proprio per questo, è un’attività pittorica che potremmo definire sia “naturale” che “sociale”. Che siano ritratti o paesaggi, esterni o interni, oggetti statici o in movimento, in ogni caso l’intenzione è la stessa: confrontarsi tramite “scatti” pittorici con tutto ciò che accade e che, proprio perché accade, potrebbe non avvenire più e anche non essere mai accaduto prima; potrebbe dissolversi così come, imperscrutabilmente, è apparso. Del Giudice ha, perciò, urgenza di “raccogliere” l’immagine che si è formata davanti al suo sguardo o alla sua coscienza (che è lo stesso: il suo infatti è un occhio cosciente) con la medesima attenzione, si presume, dell’energia creatrice necessaria alla formazione di un’immagine indipendente (se esiste) quando essa si concentri su di sè per esplicarsi. Ciò-che-avviene-fuori, infatti, è qualcosa di apparentemente immotivato, spesso addirittura incomprensibile, al punto che l’artista sembra aver rinunciato a districarne l’eventuale significato (cosa può “significare”, infatti, una foglia spostata dal vento, un prato d’erba in un preciso momento del giorno, una ruota di camion nell’asfalto, una stanza piena di oggetti ?). La conseguenza di questo accostamento al dato visivo rivela il particolarissimo stigma della sua arte: essere l’impasto pittorico della presenza assertiva di un insieme con preciso valore estetico e, per converso, la testimonianza di una eventualità, della possibilità di un accadimento.
Nel flusso instabile della memoria la pittura di Del Giudice produce ricordi inalterabili.
Cose abitate – Isabella Panfido
“Un pezzo alla volta incominciando dai dettagli, solo cose accessorie, orpelli, strati calcarei di accumulo nei cassetti delle cose, una dentro all’altra, aprire ancora, più dentro entrare e sapere con le mani che fremono, temono, prima di scoperchiare, dissigillare, sapere che farà male, che l’ologramma di qualcosa, un tempo, un’ora, un odore conservato, chi, un luogo, qualcosa farà male, per quella dolente riprova di rivedersi innocenti, prima dello sfregio o forse solo prima di perdere quel filo sottile che esce dal cuore, quel gomitolo in dotazione, gomitolo di attesa di gioia, di luce. Quel filo che ci tiene legati alla promessa. “
Riporto queste righe che aprono una breve sezione inedita di un mio libro che verrà, che è già compiuto ma non ancora licenziato. Quella sezione si intitola ‘Cose abitate’ e quando il mio caro amico Paolo del Giudice mi coinvolse nella ricerca di un titolo per questa sua esposizione del 2023, era a quello che pensavo. Poi l’illuminazione lo colse in fretta: ‘Genius loci’. Perfetto così, e il mio ‘Cose abitate’ resta per me.
Genius loci va bene. Afferisce a un ambito più vasto, certamente meno quotidiano: quello spirito che aleggia in un luogo – artificiale o naturale che sia – dal quale origina una unità misteriosa, una sorta di autorialità immateriale, generatrice e normatrice.
E il pittore in tutta la sua lunga storia, davvero è colto da una possessione che lo costringe quasi a sviscerare un tempo, entrando fisicamente e psicologicamente nel luogo che lo chiama. Restano a noi quelle visioni, selezionate, ma frutto di decine di bozzetti, veloci, spesso monocromi su piccole tavole rettangolari, su cartoni. Le sue pennellate franche di esitazione, come se quel genius gli movesse la mano fino a esaurire – ma ancora dopo decenni ritorna sui luoghi – tutta la carica emotiva del sito.
Gli anni magnifici e definitivi per l’evoluzione della sua arte, a metà degli Ottanta del secolo scorso, sono quelli della scoperta delle fabbriche abbandonate, le officine derelitte, i depositi vuoti e dimenticati. La pittura di Del Giudice si arma, contro l’abbandono, riscoprendo in esso i valori del lavoro, della fatica, dell’archivio di gesti e memorie. La ‘Buca’ di un’officina diventa allora un totem, una specie di gola dove resistono tutte le parole della vita di chi in quel luogo ha speso le ore. Il rispetto per l’uomo si fa luogo residuale, non metafora ma spazio reale, tempio/recinto sacro di esistenze. Tutto il colore della tavolozza si riversa furibondo nella giostra degli oggetti abbandonati, per rarefarsi invece presto in quei veri e propri racconti, asciutti di gesto pittorico e di colore, dei lavabi o rubinetti, dove ci è facile vedere le mani fantasma di chi li utilizzava dopo la giornata di lavoro.
Ma di questa mostra c’è qualcosa che mi sta ancora più nel cuore.
Torniamo al titolo. Il mio. Mai suggerito, peraltro, ma in pectore vivo e pertinente: ‘Cose abitate’ resta in stretta relazione, per me essenziale e squisita, con l’anima semplice e segreta delle cose, delle case, che portano su di sé la stratificazione di gesti e sguardi, amori e morti, che le hanno viste testimoni immutabili, che le hanno sfiorate.
Di questo parlavo nel brano su riportato, e di questo, credo, dicono le opere di Del Giudice radunate, alcune per la prima volta, nella retrospettiva nell’ex opificio di Villa dei Cedri.
Stanze attraversate più dalla memoria che da un vero e proprio atto volontario del guardare; percorsi mnestici più che visivi, composti da echi di parole, correnti d’aria del cuore, tenerezze insospettate, rigurgiti di paure.
Dagli angoli più oscuri emergono allora presenze corporee, di materia e colore, che si depurano della gravità, perdono ogni traccia di ingombro fisico, per diventare protagoniste – e non più testimoni – di una vita andata che forse non è nemmeno più ricordo attivo – cioè richiamabile alla memoria – ma parte inscindibile della scena esistenziale, elemento strutturale di avvenimenti o di quotidianità.
A quella parte delle opere di Del Giudice che raccontano della casa, la sua familiare di nascita e quella della casa-studio di Piazza San Vito, a quegli interni di piccola intimità, a volte gozzaniana a volte minimalista, guardo con particolare attenzione, per scoprire un aspetto meno ‘sociale’ del lavoro di Del Giudice, meno impegnato nello scavo della memoria collettiva, fatta di fabbriche dismesse, edifici abbandonati, luoghi urbani residuali. E forse meno ‘colto’ come negli svettanti interni gotici (siamo alla fase precedente all’innamoramento per il Barocco) o nelle borgesiane infilate di biblioteche, vertiginose e vagamente inquietanti.
Qui invece, e questo mi coinvolge molto, è come scoprire una strana e originalissima autobiografia, anzi, dato che parliamo di pittura, autoritratto.
E’ così che mi piace pensare, mentre osservo la poltroncina rosa, sola e consapevole protagonista di una deliziosa operina del 1992; adorabile ritratto di famiglia (io ci vedo una mia zia un po’ larga di fianchi, identica e, forse, il mio ritratto tra pochi anni), dipinto con il colore della intenerita confidenza di un giovane nipote, rispettoso e divertito.
Così il cugino magro e silenzioso, sempre presente alle riunioni di famiglia eppure sempre assente così appartato, dall’aspetto vagamente malaticcio, è quel termosifone in ghisa d’angolo accanto a una porta socchiusa.
E la pianta – una dracena, verosimilmente – a guardia di un cantone nel corridoio d’ingresso che si apre su una specchiera, non è forse la eterna domestica fedele, pronta al richiamo appena dietro la parete?
In questa galleria di ritratti, dove le poltrone, le sedie (imbottite e tronfiette o di plastica e metallo, ardite e rivoluzionarie), i letti sono protagonisti muti e sornioni mi sembra di entrare nella vita di chi non ho conosciuto eppure mi è noto attraverso gli oggetti che rappresentavano la sua quotidianità.
E’ una casa borghese l’una, l’altra di artista forse squattrinato e comunque disinteressato all’aspetto consumistico, e stanno l’una e l’altra davanti a noi con la tenerezza rigorosa dell’arte di Del Giudice, per dirci cose che ci riguardano, che ci ricordano quello che è stato, il buono, forse non bello ma vero, di un tempo irripetibile.
La storia di una casa che rivive grazie alla memoria, che non teme ruspe o demolizioni e rifacimenti, esiste una volta per tutte dentro le pennellate forti e sicure, di chi l’ha amata una volta e per sempre.
Del Giudice all’ex opificio le tele della vita e dell’arte “tratto da Il Gazzettino di sabato 20 maggio 2023”
I vasti e luminosi spazi dell’ex Opificio di Villa dei Cedri a Valdobbiadene sono la cornice ideale per la grande mostra retrospettiva “GENIUS LOCI, dipinti di interni dal 1985”, dell’artista trevigiano Paolo del Giudice, promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Valdobbiadene, aperta dal 20 maggio 2023 e prorogata fino all’8 ottobre..
Anche gli appassionati, che seguono da decenni il suo lavoro, hanno la sorpresa di scoprire molte opere inedite, soprattutto della fertile stagione tra seconda metà degli anni Ottanta e i primi Novanta. Momento fondamentale in cui l’artista ha rivolto lo sguardo dalla figura umana ai luoghi della vita, dell’arte e della memoria, una ricerca che lo vede coinvolto tutt’ora. E ha maturato al contempo un linguaggio pittorico di fluide pennellate, assolutamente originale e inconfondibile, che fa affiorare le immagini dalla superficie della tela pur in assenza di un disegno preciso. È la memoria visiva dello spettatore che completa l’opera e rende i soggetti perfettamente riconoscibili.
Scegliendo come filo conduttore l’ampia tematica degli interni, la rassegna ci fa entrare in mondi che spesso non esistono più e che tornano a nuova vita grazie alla pittura. In una dimensione poetica in cui si manifesta lo spirito dei luoghi, come suggerisce il titolo della mostra.
Le opere sono delle più varie dimensioni, dalle piccole tavolette alla grandi tele di tre metri e oltre.
L’allestimento è quello, da sempre amato dall’artista, di sospendere dall’alto nel vuoto parte dei dipinti, per farli dialogare tra loro e con gli ambienti dell’ex opificio, rinati grazie a un’attenta ristrutturazione, che ha saputo salvaguardarne l’anima e la storia.
Il percorso espositivo parte dall’ampio spazio del piano terra che ospita i temi dell’archeologia industriale: edifici dismessi che sembrano sul punto di dissolversi, composizioni casuali di fantasmi di macchinari, rottami, detriti e buche di fonderia che diventano nature morte vivificate dall’energia della materia, del colore e del gesto pittorico,
Nel buio ambiente del piano intermedio ci si immerge fisicamente nella pittura, vagando in un labirinto di tele medie e grandi, tutte sospese a tiranti. E si passa dai bar agli interni domestici, testimoni dell’intimità della vita privata, tutti d’altri tempi e rivissuti col filtro della memoria,
Note altissime si raggiungono nella sala al piano superiore, che raccoglie le tele dedicate agli ambienti sacri: due grandi interni gotici, altari, cappelle e chiaroscuri barocchi, scaffali di biblioteche, archivi e carte, custodi della memoria.
Infine, nel seminterrato, accompagnati dal fragore del salto del torrente che azionava i meccanismi dell’antica filanda, la sorpresa di scoprire dei soggetti legati all’acqua, come tre umili rubinetti portati alla solennità di un trittico.
Nella stessa sala un video per approfondire il lavoro e la poetica dell’artista.